Il Leopardi idillico di Fernando Figurelli (1941)

Recensione a Fernando Figurelli, Giacomo Leopardi poeta dell’idillio (Bari, Laterza, 1941), «L’Italia che scrive», a. XXIV, n. 11, Roma, novembre 1941, pp. 334-335.

IL LEOPARDI IDILLICO DI FERNANDO FIGURELLI (1941)

In questo breve saggio sulla poesia leopardiana vorremmo anzitutto separare l’impressione generalmente grata della lettura entro termini non discussi della tesi e la reazione negativa alla tesi stessa. Il libro è scritto con una sensibilità molto maggiore di quella che potemmo trovare molti anni fa in un saggio sul Dolce Stil Novo dello stesso autore, e ci presenta una lettura quasi piú da letterato che da critico, nel senso un po’ del commento del Flora ai Canti. Ma questa lettura è condotta ai fini di alcune idee che vanno immediatamente affrontate ed esaminate senza lasciarsi trasportare dalla piacevolezza spesso un po’ dolciastra (piú aura poetica che poesia) delle pagine. Il Leopardi sarebbe un puro contemplativo (ma meditativo), «remoto dagli uomini e dal mondo» e il suo atteggiamento fondamentale tradotto poeticamente nell’idillio costituirebbe l’unico motivo della sua poesia. La tesi genericamente è la piú affermata nella critica post-crociana dopo che il Croce in uno dei suoi saggi meno belli e meno alti ebbe trovato nel Leopardi una deficienza vitale, un complesso di assenza e torpore («Oh se un raggio di sole avesse fugato dalle sue vene la malattia che lo avvelenava, disciolto il torpore che lo aggravava!»), ed ebbe identificato sostanzialmente poesia con idillio, non poesia con non idillio.

«Remoto dagli uomini e dal mondo». Ma bisogna ben precisare che questa lontananza non è assenza distratta o pura contemplazione mistica, bensí approfondimento dei motivi o del motivo della vita fino ad un punto di accertamento del no che a molti moderni sembra il punto di partenza di una non retorica costruzione positiva. Come d’altra parte è pericoloso voler trovare ad ogni costo un unico accento in una personalità poetica senza volere insieme ricercare l’atteggiamento storico della personalità stessa. C’è un solo Dante, ma c’è il Dante dell’Inferno e il Dante del Paradiso con i loro diversi problemi poetici, con una diversità di tono. Ed è spesso troppo comodo e razionalistico ridurre tutto ad unità o degradare un nuovo motivo a forma imperfetta, a difetto dell’unico motivo affermato. Lungi da noi l’assurda pretesa di togliere alla critica il suo sforzo unitario, la sua brama di eternità del suo oggetto, ma vogliamo insieme che la critica quanto piú sente le proprie esigenze spirituali tanto piú anche cerchi di adeguare la vita che ricrea nel suo storico, non perciò cronistico, sviluppo. Vita e formazione, e se pure in ogni persona c’è una prima parola inconfondibile, il nucleo da cui nulla di suo può esimersi; pure, come non vi è capricciosa aggiunta, cosí vi deve essere il rispetto effettivo per gli atteggiamenti fondamentali della personalità. Cosí come è da fuggire il gusto della poesia come unica parola ineffabile e conoscere nel concreto estetico, cioè nella lingua poetica in cui la personalità si esprime, i motivi con cui la personalità stessa presenta ad un eterno tribunale le proposte umane. E come in storia letteraria si ovvia con la storia della poetica all’isolamento delle singole voci, cosí nel cerchio dell’individuo si legano nella sua poetica e nella sua lingua le diverse soluzioni del suo istinto geniale, della sua cultura, dei suoi problemi.

La critica leopardiana era già indirizzata in gran parte, specie per il timore di non poetiche esaltazioni delle parti piú impegnative dal punto di vista nuovo, potremmo dire religioso, alla valorizzazione del motivo idillico come unico della poesia leopardiana. E nessuno si è esplicitamente occupato (si veda semmai il saggio di L. Malagoli, Il grande Leopardi, Nuova Italia, 1937, però troppo farraginoso e sfocato) di accertarsi davvero se le poesie dell’ultimo periodo, posteriori al Pensiero dominante, non abbiano una loro unità, un accento che le distingue e le incentra in una esperienza nuova e in una poetica nuova, in una volontà nuova verso forme piú impegnative, non idilliche, e non perciò senz’altro impoetiche e difettose.

Il Figurelli ha voluto riprendere la tesi tradizionale e motivarla piú rigorosamente, dal di dentro delle opere e della psicologia del poeta, cercando di costruire una intera rappresentazione della vita interiore del Leopardi: e in questo senso sono disposto a riconoscergli un coronamento felice della linea crociana, arricchita da un motivo di indagine psicologica.

Non discuto quindi la coerenza del libro, (che diventa anzi, ripeto, l’integrazione conclusiva dell’atteggiamento critico piú generale), ma sí la tesi di un Leopardi solamente contemplatore e dell’unicità del motivo idillico: e presto apparirà presso la casa Sansoni un breve saggio a proposito delle ultime liriche leopardiane che avevo già trattato in un opuscolo quasi privato, Linea della lirica leopardiana, Macerata 1935.

Il Figurelli, per motivare piú integralmente la tesi idillica, premette un capitolo sulla psicologia del Leopardi per ridurla ad un atteggiamento contemplativo che risulterebbe sempre a conclusione di ogni esperienza, che escluderebbe ogni vera attività intellettuale (si veda il fascicolo Il pensiero di G. Leopardi di Cesare Luporini, estratto dall’Annuario del R. Liceo di Livorno, 1937), ogni romantico ardore di uscire fuori di sé verso un’affermazione vitale: «La sua sensibilità, incapace di estrinsecarsi ed oggettivarsi, ebbe in sé una deserta sterilità, come di fuoco solitario che non possa varcare sabbia o cenere che lo contorni». E insistendo piú di quanto l’altra critica non abbia fatto, sul carattere di assoluta inattività della sensibilità leopardiana, trova in essa i germi di una poesia che non poteva non essere idillica.

Ottenuta cosí tale deduzione, definisce in sede poetica l’idillio come corrispondente alla disposizione contemplativa in sede psicologica. Nell’idillio ci sarebbe una partecipazione alla natura non per amore descrittivo o realistico, ma come ad elemento essenziale della sua anima commossa. Commozione duplice: senso della esclusione e dissolvimento delle cose nell’infinito. Con la natura nasce il colloquio tipico dell’idillio: e qui vorremmo solo frettolosamente osservare come il colloquio, atteggiamento fondamentale del preromanticismo, fosse stato portato, specie nell’Ossian cesarottiano, alla coscienza poetica e letteraria italiana e vada perciò tenuto conto anche della tradizione di gusto e di lingua che il Leopardi aveva davanti, assai piú della suggestione della vecchia forma rettorica dell’apostrofe «cosí frequente nella lingua familiare e cosí spesso usata dai poeti di tutto il mondo, nell’oratoria e nella poesia» cui il Figurelli accennava in proposito. Che poi, se è vera l’importanza enorme della «rimembranza», essa non vale per tutti i canti e dire «Il Leopardi non è mai stato poeta dell’esperienza immediata e quando l’ha tentato è stato inferiore a se stesso» mentre da una parte è generico (quali sono, in senso assoluto, i poeti dell’esperienza immediata?), cozza almeno nell’esempio illustre del Pensiero dominante che nasce dal pieno di un’esperienza sentimentale. Passando poi ad una riprova sulle singole poesie, l’autore considera prima i canti diversi dagli idilli, per ritrovare anche in essi la contemplazione idillica o l’ubbidienza a motivi extraestetici o paraestetici («in tutti questi canti, sempre che la poesia si affaccia tra il teso ragionare, è ancora dalla contemplazione idillica che muove»). Amore della tesi che seguita nell’ultimo capitolo in cui si esamina lo svolgimento dell’idillio nei veri e propri idilli. Ma, ripeto, la discussione non può vertere sui singoli esami, dato che essi sono gli esempi addotti già in funzione delle idee che abbiamo precedentemente considerato. Ci basti osservare anche che in questo libro era facile scivolare, come nella conclusione avviene, in una rappresentazione a mano a mano piú arbitraria del Leopardi: «spettatore attonito» della vita degli uomini, di sé, della natura, dolente e consolato dai suoi canti, «E nella poesia le stesse sue lacrime diventano luce, e l’anima gli se ne illuminò, fatta lieve del suo peso di dolore, racconsolata e redenta dalla grave fatica del vivere».

«Spettatore attonito»? L’errore iniziale si è coagulato in un volto che non è certamente quello leopardiano.